Frattali

Le forme della geometria classica come le linee, i piani, i cerchi, le sfere, i triangoli e i coni, rappresentano da sempre una forte astrazione della realtà e hanno ispirarato la potente filosofia platonica dell’armonia. Euclide costruì con esse una geometria che dura sui banchi di scuola ancor oggi dopo due millenni, gli artisti trovarono in tali forme una bellezza ideale, gli astronomi tolemaici costruirono su di esse una teoria dell’universo.

Fu Benoit Mandelbrot, eclettico e controverso matematico polacco di origine ebreo-lituana, che all’inizio degli anni Sessanta cominciò a comprendere e a definire una geometria più complessa, bucherellata e irregolare, apparentemente disordinata e alquanto aggrovigliata, che però si avvicinava meglio a molte delle forme che costituiscono la natura. Linee spezzate come quella della costa frastagliata di un’isola, che occupano uno spazio intermedio tra una retta e un piano, superfici con buchi, simili al formaggio svizzero come il paesaggio lunare, che stanno in una dimensione compresa tra il piano e lo spazio, sono gli oggetti di una nuova geometria per la quale Mandelbrot coniò il termine “frattale” (dal latino fractus, interrotto, frazionato). Le forme semplici della geometria euclidea sono quindi troppo semplici, per non dire quasi disumane, e non certo in risonanza con la tendenza che ha la natura di organizzare se stessa o col modo in cui la percezione umana apprezza gran parte delle bellezze naturali. “Perché il profilo di un albero spoglio e piegato dal vento impetuoso contro un cielo serale – disse il fisico tedesco Gert Eilenberg – viene sempre percepito come bello, mentre quello di un edificio universitario funzionale non viene percepito come tale, nonostante tutti gli sforzi dell’architetto? Il nostro senso di bellezza sembra più ispirarsi dalla combinazione armonica di ordine e disordine quale si presenta in oggetti naturali come le nuvole, gli alberi, i fiocchi di neve o il profilo di una catena montuosa.”

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Jung diceva che “in ogni caos vi è un cosmo e in ogni disordine un ordine nascosto”. Ma qual è allora quest’ordine nascosto nella natura? Esiste una proprietà, definita come “autosomiglianza”, che accomuna le loro forme apparentemente casuali e caotiche. E’ una proprietà di tipo ricorsivo (o per usare termini un po’ più complessi, di invarianza di scala o di omotetia interna), per la quale avviene che ogni parte è simile al tutto. L’esempio più evidente di autosomiglianza è quello del cavolfiore: un qualsiasi suo pezzo continuerà ad avere la forma dell’intero ortaggio.

La nozione di autosomiglianza a scale diverse fa vibrare le corde di antiche culture millenarie. Nel buddismo Mahayana esiste la metafora della rete nel cielo del dio Indra, un’infinità di perle disposta in modo tale che, se se ne osserva una, si vedono tutte le altre riflesse in essa. Anche un antico filone del pensiero occidentale aveva già coltivato quest’idea. Leibniz immaginò “ogni porzione della materia come un giardino pieno di piante e come uno stagno pieno di pesci; ma ogni ramo di pianta, ogni membro di animale, ogni goccia dei loro umori, è ancora un giardino simile, un simile stagno.” Per Blake invece il mistero e la bellezza della natura era “vedere il mondo in un granello di sabbia e il cielo in un fiore di campo, tenere l’infinito nel palmo della tua mano, e l’eternità in un’ora.”

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