Parricidio psicologico: atto necessario per crescere?

Dice bene lo psicologo Eric Fromm quando sostiene che “i risvolti psicologici del mito edipico possono essere capiti a fondo solo come simbolo della ribellione del figlio verso il padre autoritario, mentre il matrimonio successivo tra Edipo e Giocasta è solo un elemento secondario”. Così come è stato sottolineato da Freud, l’uccisione di Laio rappresenta il nucleo del mito stesso e può essere interpretato come il terrore filiale della castrazione da parte del padre nel caso in cui venisse scoperta la gelosia assassina che proviene dal desiderio di reclamare la madre.

Nel tentativo di Laio di voler eliminare il figlio per evitare la predizione dell’oracolo (la stessa sorte tra l’altro che capita a déi maschili come Urano, Saturno e Giove) emerge poi la tematica del figlicidio, così tragicamente ricorrente nella storia dell’umanità. Si pensi a Dio che ordina ad Abramo di uccidere il figlio Isacco, o a Gesù che implora sulla croce “Padre, perché mi hai abbandonato”, o ancora al fatto che nell’Impero Romano la “patria potestà” contemplava diritto di vita e di morte sui figli (che potevano essere venduti o sacrificati agli déi). Per non parlare poi del rito iniziatico della circoncisione (che per gli Ebrei sostituiva l’iniziale sacrificio biblico di Isacco e sanciva un patto tra Dio e l’uomo), oppure il costume di trasformare tramite castrazione i bambini maschi in soprani, o ancora il cannibalismo e il commercio della carne dei propri figli permessa nel Medioevo durante i periodi di carestia. E che dire del fenomeno bellico in generale, che dalla preistoria ad oggi ha ricavato una sola costante, e cioè il sacrificio di generazioni di maschi giovani.

Ai giorni nostri una tendenza psicologica al figlicidio può riscontrarsi in un padre che vive la sensazione di essere spodestato affettivamente dal figlio nei confronti della moglie, oppure che teme inconsciamente di sentirsi un fallito nel caso in cui un destino migliore del figlio possa sovvertire tutta l’autorità che lui rappresenta. Il mito di Edipo emerge altresì nel potere psicologico, e in alcuni casi fisico, di rigide educazioni, punizioni e divieti di ogni genere subiti nell’infanzia. Potrà allora succedere che si metta in atto da parte dei figli un processo sistematico di rimozione del Super-Io anziché dell’Es, e da ciò molto probabilmente deriverà quella caratteristica contestazione ottusa verso l’autorità e verso i valori imposti da ogni forma di educazione tradizionale. Ma alla fine quella ribellione generalizzata contro tutto e tutti potrà diventare nel tempo l’unico modus operandi di un individuo che in fondo continua a ribellarsi al padre che non lo ha compreso.

La lotta edipica delle giovani generazioni maschili può essere, in definitiva, quella di un modello comportamentale interessato non all’avvicinamento del genitore del sesso opposto ma piuttosto al capovolgimento del vecchio ordine e l’asserzione dello spirito d’indipendenza. Il soggetto esteriorizzerà allora la sua rabbia verso una sorta di Padre Terribile, poiché sente che vivere all’ombra della sua autorità gli impedirebbe di raggiungere la meta di una libera auto-realizzazione. “Il Padre Terribile – sottolinea Eric Neumann – appare come la forza coesiva dell’antica legge, dell’antica religione, dell’antica moralità e dell’antico ordine, delle convenzioni, della tradizione o di ogni altro fenomeno sociospirituale che, coscientemente, si impadronisce del figlio e impedisce il suo procedere verso il futuro.”

Il confronto con il Padre Terribile, che nel mito edipico giunge sino all’atto estremo del parricidio, si presenta allora come una tappa necessaria per l’evoluzione del figlio maschio, poiché lo costringe a interiorizzare l’autorità e gli impone di incorporare e gestire responsabilmente nella sua personalità quell’entità per la quale ha tanto lottato. Senza questa lotta egli rimarrebbe eternamente figlio di suo padre, l’eterno ribelle che sbatte la porta di casa e che rifiuta in sostanza la sua possibilità di diventare adulto.

   Uno degli esempi più illustri di parricidio artistico è quello di Pablo Picasso. “En arte hay que matar el padre” confidò il pittore andaluso ad un amico quando, nell’autoritratto Yo Picasso del 1901, decise di sostituire definitivamente il cognome paterno con quello della madre. Il padre, don José Ruiz, era un modesto pittore specializzato in quadri da soggiorno in cui i piccioni apparivano come soggetto prevalente. Era anche professore alla scuola di Belle Arti a Barcellona, qualifica che mascherava un fallimento artistico messo ancor più in evidenza dal talento smisurato del figlio. Non deve pertanto stupire l’abbandono della prestigiosa Accademia Reale di Madrid, nella quale Pablo venne iscritto con l’ausilio finanziario dello zio don Salvador Ruiz, medico di Malaga e orgoglioso di dare lustro a quel cognome di famiglia che solo qualche anno dopo il nipote avrebbe rinnegato.

I gesti di rifiuto nei confronti della discendenza paterna e la successiva identificazione con il cognome della madre ci riportano di nuovo al mito di Edipo. Ed è proprio il mito stesso a proporci un’interessante chiave di lettura della cecità, tema ricorrente che ritroviamo nei suoi dipinti tra il 1901 e 1904. La maggior parte dei critici e dei biografi picassiani accomuna la cecità con la tristezza, la malinconia, la povertà e la fame, condizioni umane alle quali il pittore ha associato simbolicamente la freddezza del colore blu. Qualcun altro ha fatto invece notare che don José Ruiz stava perdendo la vista proprio in quegli anni e che quindi l’ipocondriaco Picasso temeva la cecità come un destino personale. In verità il finale tragico di Edipo, che si strappa gli occhi dopo aver appreso la verità dell’uccisione del padre e dell’incesto con la madre, equivale psicologicamente ad un processo obbligato di introspezione che conduce alla conoscenza di se stessi. “L’accecamento di Edipo – dice James Hillman – è l’esito psicologico di un modo di seguire le tracce, interrogare, e cercare la verità su se stessi. Il conosci te stesso equivale qui alla cecità, poiché quando vengo finalmente a sapere chi sono, il risultato non può che essere il non vedere più quello che sono stato prima.”

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